Sul Sole24Ore una attenta disamina sulle criticità del Pnrr sottoposto al legittimo pressing della UE.
Intorno al Pnrr che inciampa è iniziato il balletto del «tutti contro tutti». Il governo Meloni accusa l’esecutivo Draghi, gli enti territoriali si sentono chiamati in causa sui ritardi e rilanciano la palla delle responsabilità nel campo dei ministeri (con qualche ragione), litigando nel frattempo fra loro, con il sindaco di Milano Giuseppe Sala che chiede di «dare di più alle realtà locali che possono investire» e il presidente della Calabria Roberto Occhiuto che lo accusa di «secessione». L’accendersi di un dibattito del genere è in parte fisiologico, perché i ritardi che cominciano a emergere dietro la griglia di milestones e target più o meno rispettati alimenta la paura di trovarsi in mano il cerino esplosivo delle responsabilità. Vista la situazione, però, pare più utile entrare nel merito degli ostacoli che frenano la corsa del più vasto programma di spesa pubblica del Dopoguerra.
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attuazione finanziaria
Tolti i crediti automatici
la spesa è quasi ferma
A incendiare la polemica sui ritardi del Pnrr sono stati i numeri riportati nella relazione della Corte dei conti presentata martedì alla Camera, che traducono in termini efficaci lo snodo attuativo cruciale ma fin lì rimasto sottotraccia. A fine 2022 l’Italia ha speso circa 23 miliardi dei 191,5 finanziati dal Next Generation Eu, ma tolti i crediti d’imposta automatici per le imprese e l’edilizia, che non investono la capacità di spesa della Pa perché si attivano semplicemente con la richiesta degli investitori privati, il dato crolla a 10 miliardi su 168,4, con un tasso di attuazione inchiodato al 6%. I livelli di spesa sono sotto la metà rispetto ai programmi iniziali, e imporrebbero un’impennata dei pagamenti (dai 20,4 miliardi del 2020-22 ai 40,9 previsti per quest’anno fino a volare ai 46,5 e 47,8 miliardi in calendario per 2024 e 2025) a cui non crede nemmeno il governo. Perché per raggiungerla bisognerebbe raddoppiare la capacità di spesa della Pa.
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le selezioni
I bandi che faticano
a vedere il traguardo
A rendere immediatamente obsoleti i programmi di spesa costruiti alla partenza del Pnrr c’è il fatto che molte procedure ministeriali per selezionare i progetti da finanziare hanno richiesto molto più tempo del previsto. I ritardi sono emersi in maniera prepotente per esempio nel filone relativo ad asili nido e scuole dell’infanzia, a cui il Pnrr dedica 4,6 miliardi con l’obiettivo di garantire in tutta Italia una copertura in linea con i target europei. Il primo inciampo è stato prodotto dalla scarsità dei progetti arrivati dai Comuni del Sud, cioè proprio dove gli asili mancano, e ha richiesto una proroga di un mese. I mesi aggiuntivi sono però diventati sei per la lentezza ministeriale nello stilare le graduatorie, al punto che proprio intorno agli asili è nato il prologo del rimpallo di responsabilità che anima il dibattito di oggi. «Il ritardo è maturato prima dell’insediamento di questo governo», ha detto a dicembre il ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara (a ragione, calendario alla mano). Analoga la vicenda dei 2,6 miliardi di investimenti in «economia circolare» (impianti per i rifiuti), scanditi dalla carenza progettuale del Mezzogiorno prima e dalla lunga cucina ministeriale delle graduatorie poi.