In un articolo di Antonio Pagliano su ‘Il Sussidiario.net’ esplicite osservazioni sui criteri di scelta delle consulenze contabili da parte del ‘Pubblico’ che appaiono come una sorta di scorciatoia rispetto al naturale utilizzo del proprio personale, che comporta assai spesso l’affidamento alla stessa società di consulenza anche della successiva fase di realizzazione. Insomma, una vera e propria scorciatoia che si trasforma in un vincolo a discapito del ruolo dell’operatore pubblico. Da ciò, la condivisibile esortazione a rafforzare la struttura della Pubblica amministrazione a un reclutamento che punti alla qualità.
Nel caso in oggetto, giova ricordarlo, la consulenza affidata dal Mef a McKinsey aveva come oggetto la predisposizione del draft e la messa a punto del benchmarking del piano, vale a dire la preparazione del testo del Recovery Plan in forma coerente con i piani redatti dagli altri Paesi.
Oltre all’indubbia necessità di innovare e migliorare i sistemi di reclutamento del personale, altrettanto rilevante appare l’aspetto legato al possibile supporto che potrebbe essere dato dall’accademia e dai professionisti italiani alle pubbliche amministrazioni. D’altronde, oltre al possibile ricorso a singole figure di provenienza accademica di alto profilo, come sovente accade, al sistema universitario la legge Gelmini ha consentito, attraverso l’introduzione della figura dello Spin off, di rendersi a sua volta soggetto in grado di trasferire, all’esterno dell’accademia, il frutto degli studi effettuati in forma societaria, facilitando pertanto la creazione di strutture societarie in grado anche di svolgere consulenze specializzate o direzionali. Quindi serve avviare una riflessione di sistema, soprattutto in proiezione delle future sfide cui certamente il Paese sarà impegnato nell’applicazione del piano del Recovery.
Il tema del ruolo delle multinazionali della consulenza è in generale di estremo interesse per quel mondo di professionisti che gravitano intorno alle aziende private, e più recentemente anche di quelle pubbliche, che spesso sono posti in concorrenza con soggetti molto più strutturati e accreditati di quanto lo possa essere qualunque operatore abituato a lavorare in solitudine. È ovvio che bisogna stare attenti a non cadere in un nazionalismo sterile, ma certo non è peregrino iniziare seriamente a discutere se e quanto quel credito di cui godono le multinazionali della consulenza sia fondato o quanto invece sia il retaggio dei “vecchi complessi di inferiorità” in virtù dei quali tutto ciò che ha un marchio “esterofilo” sembra sempre più bravo di noi.
L’idea che ci piacerebbe fosse affermata è che una solida ripresa economica del Paese debba preferibilmente passare attraverso percorsi progettuali e decisionali ispirati alle matrici culturali del nostro Paese, senza il supporto di grandi strutture mondiali che rappresentano di per sé centri di interesse non sempre in linea con quelli nazionali.
L’attività delle multinazionali della consulenza è storicamente iniziata nel nostro Paese grazie all’attività di certificazione dei bilanci. Una sorta di monopolio basato su un paradigma: l’affidabilità come conseguenza dell’elevata strutturazione ed esperienza internazionale. Dal sostanziale monopolio che esse hanno dello specifico settore, deriva poi una forte azione di occupazione del mercato in tutti gli altri settori della consulenza aziendale.
Le “Big Four” sono a oggi oligopolisti del settore. Dietro un’eccellente organizzazione e un marketing che oramai si autoalimenta, si celano piccoli e grandi mostri. Ognuno dei quattro colossi della consulenza ci ha messo del suo nel “certificare” bilanci di società divenute poi protagoniste dei maggiori scandali finanziari di cui poi hanno dovuto spesso pagare le spese i contribuenti dei vari paesi. È sufficiente citare casi come la Royal Bank scozzese, salvata poi con 45 miliardi di sterline pubbliche, o più recentemente il caso finito sotto accusa in Germania in relazione alla bancarotta della fintech Wirecard, che riportava a bilancio disponibilità liquide per oltre un miliardo, depositate in un conto di Singapore ma solo sulla carta, che nessuno aveva verificato
Non serve ricordare chi era il revisore contabile della Lehman Brothers, protagonista, nel 2008, del più grande crac finanziario della storia o della HealthSouth, gruppo di servizi sanitari, finita sotto inchiesta per il fallimento e le falsificazioni contabili. O chi si doveva occupare della correttezza dei conti di HSBC, altra banca inglese salvata nel 2008 dal Governo britannico, o chi sia stato a dare via libera ai bilanci di Northern Rock, altro disastro finanziario inglese del 2008 al quale il Governo è stato costretto a rimediare, oltre che di Tyco e delle assicurazioni AIG.
Sul fronte italiano, non sono stati da meno le facili certificazioni ricevute dai bilanci di Parmalat, Popolare Vicenza, Banca Marche, Banca Etruria, Veneto Banca, Carige ecc. Purtroppo quasi nessuno di questi scandali finanziari è venuto alla luce per i rilievi dei revisori contabili.
Le stesse società di consulenza, infine, sono state coinvolte, non più tardi di 2 anni fa, in un procedimento sanzionatorio dell’Antitrust per la “coordinata” partecipazione a gare pubbliche di servizi integrati. E non si escludono ricadute penali nei prossimi mesi.
Ma perché le società di revisione se la cavano, al massimo, con qualche multa senza che la loro affidabilità sia scalfita? Come riassume Richard Brooks nel suo libro “Bean counters”, le ragioni sono molteplici. C’è soprattutto una potentissima azione di lobby condotta da questi gruppi che ha portato alle emanazioni di norme che limitano fino quasi ad azzerarla la responsabilità dei revisori, proteggendoli da eventuali azioni collettive che riesce al contempo a nascondere sotto il tappeto la polvere soverchia. Esse rappresentano una forza finanziaria degna di un bilancio di una nazione di medie dimensioni.
I quattro colossi affiancano all’attività di revisione quella della consulenza. Anzi, è da quest’ultima che traggono i maggiori introiti e profitti, soprattutto in ambito finanziario e fiscale. A tal proposito, Brooks ricorda come i tre quarti degli schemi di elusione fiscale utilizzati nel mondo siano stati messi a punto da queste quattro società. Come dire, fra l’altro, che le pareti divisorie sono sottili e spesso i servizi finiscono per sovrapporsi generando ulteriori conflitti di interesse.
A fronte di questo scenario, quanto ancora regge il mito dell’affidabilità? E, soprattutto, siamo così sicuri che strutture evidentemente di dimensioni assai meno estese non possano avere maggiore affidabilità perché magati proiettate a una cura del cliente più diretta e non unicamente delegata alle terze linee rappresentate da bravissimi ma spremutissimi neo laureati alle prime armi?
Molto poco conosciuto, ad esempio, l’esperimento di un nucleo di ricercatori dell’Università della Campania – di cui mi onoro di far parte – che sta da qualche anno portando avanti attraverso l’istituzione di uno spin off universitario (GRALE research and consulting), che si occupa dei temi della compliance integrata e dei controlli aziendali, prestando la loro attività consulenziale tanto a gruppi di imprese private, prevalentemente del nord Italia, quanto a pubbliche amministrazioni, senza trascurare la ricerca scientifica che ha visto sin qui la collaborazione con strutture come l’Anac e ora l’Agenzia dei beni confiscati.
Decine di altre realtà analoghe, nei campi più svariati della scienza, dalla medicina all’ingegneria, stanno percorrendo strade simili, con una marcata caratterizzazione di elevata qualità. Sarebbe preferibile che proprio il Governo contribuisse a valorizzarle, partendo con il mapparle e acquisendo così la consapevolezza di poter contare su questi centri di eccellenza a cui affidare incarichi più o meno strategici.
I tempi paiono maturi per un salto di qualità culturale, accantonando le “etichette” a favore della reale qualità che la nostra classe accademica è certamente in grado di esprimere a supporto del percorso di rinascita cui tutto il Paese vorrà tendere nei prossimi anni.