Nella lunga intervista rilasciata dal Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, la sua ‘terapia anti-covid’ con un chiaro messaggio al sistema bancario italiano che, in presenza di surplus, deve liberare risorse e liquidità per imprese e famiglie al fine di fronteggiare la nuova emergenza causata dall’ondata di ritorno della pandemìa.
Qui di seguito l’intervista integrale rilasciata al Corriere della Sera Economia .
Governatore, come valuta la risposta dell’economia italiana allo choc di Covid-19 e i rischi di una seconda ondata?
«In tempo di pace non avevamo mai visto una caduta così pronunciata dell’attività economica, ma il recupero sta andando più o meno come previsto. Anche la ripresa dei contagi, pur se da noi ancora meno intensa che altrove, era stata messa in conto. Nuove misure di chiusura possono essere evitate se mettiamo a frutto l’esperienza che ha portato il nostro Paese a uscire prima di altri dalle fasi di tensione più acuta. In Banca d’Italia restiamo dell’idea che siamo in una fase di progressivo recupero. Il Governo con la prossima manovra di bilancio punta a ottenere una crescita vicina al 6% per il 2021, noi a luglio avevamo previsto qualcosa intorno al 5%. Ma anche solo disegnare scenari è difficile perché buona parte della caduta è dovuta non solo all’offerta, ridottasi a causa delle chiusure, ma anche alla domanda. Il risparmio è salito perché non si poteva spendere, ma anche a causa dell’incertezza. Se questa persiste gli effetti possono essere anche più negativi. Dobbiamo fare di tutto per ridurla».
Fine del blocco dei licenziamenti, banche, diseguaglianze: quali sono le incognite che la preoccupano di più?
«Lo stato di incertezza in cui oggi viviamo è caratterizzato da tre fattori. Il primo è sanitario, riguarda la durata della pandemia, i tempi per produrre e distribuire un vaccino. Il secondo è più soggettivo e psicologico: a fronte dell’incertezza le imprese e noi tutti come consumatori tendiamo a procrastinare, a non consumare né investire. In più ci sono i riflessi di comportamenti simili che si verificano all’estero; tutto ciò può causare una caduta prolungata della domanda aggregata. Questo è il fenomeno economico che mi preoccupa di più: un problema molto keynesiano, se vogliamo. La propensione al risparmio sale, il consumo aggregato scende, ma ciò a sua volta fa sì che ci sia meno attività produttiva, meno occupazione, meno reddito, cosa che finisce per ridurre il risparmio complessivo anche se, paradossalmente, tutto è partito dal tentativo che ciascuno stava facendo di far crescere il proprio. Contro questa spirale negativa, bisogna intervenire con la politica di bilancio e la politica monetaria. È essenziale continuare ad avere politiche accomodanti finché questa componente legata all’incertezza non scompare. Poi c’è un terzo fattore: non sappiamo come ne usciremo».
Che intende dire?
«Quale sarà il “nuovo equilibrio”, ci sarà un new normal? Finché non si capisce cosa sarà il nuovo mondo – magari con più digitale, con modifiche nelle attitudini di consumo, un turismo diverso e più regolato – la struttura della produzione e la natura degli investimenti non saranno definite e potremmo vivere una transizione complicata. Questo è il quadro che più mi preoccupa, perché oggi è difficile dare risposte».
La Banca centrale europea chiede alle banche di iscrivere fra i crediti deteriorati le posizioni più difficili. Non si rischia di imporre una stretta prematura al credito?
«Di fronte a valutazioni di alta probabilità di insolvenza, bisogna che le banche ne tengano conto: hanno capitale in eccesso da utilizzare. Le banche hanno avuto un aumento consistente dei coefficienti patrimoniali quest’anno, anche perché non hanno distribuito dividendi e così hanno costituito un cuscinetto. Quel cuscinetto serve per utilizzarlo in una fase del genere. Le inadempienze molto probabili e le sofferenze conclamate non possono essere mantenute in bilancio senza sufficienti rettifiche di valore; altrimenti ne deriverebbe un grave problema anche in tempi non lunghi. Ci vuole equilibrio e l’autorità di vigilanza sa bene che una crescita dei crediti deteriorati è inevitabile. Ma se non mettiamo subito in bilancio ciò che manifestamente non può essere recuperato, le banche accumuleranno perdite tali da richiedere interventi di ricapitalizzazione rapidi e sostanziali, magari in condizioni di mercato difficili. Peraltro ci sono situazioni diverse e le banche più piccole possono avere maggiori difficoltà, anche per i loro rapporti con molte piccole imprese oggi più vulnerabili. Serve un’analisi onesta: se un’impresa non può essere rimessa in sesto, bisogna pensare ad altri interventi che il governo può fare che riguardano, ad esempio, sussidi per la disoccupazione e sostegno dei redditi».
Governatore, sta tornando un rischio di deflazione in area euro e in Italia?
«L’Italia è in linea con la media europea, non c’è differenza. La ragione ultima della variazione negativa è legata ai prezzi dell’energia, che sono crollati. Era del tutto previsto e non è straordinariamente rilevante. Tuttavia anche al netto di questo le variazioni dei prezzi tendono a essere molto basse, se non negative, e si è creata una distanza, da colmare, dal nostro obiettivo di stabilità dei prezzi, con effetti che possono essere pericolosi. La bassa inflazione può portare a mantenere basse le aspettative di variazione dei prezzi, queste a loro volta influenzano la crescita dei salari e, nuovamente, gli stessi prezzi. I tassi d’interesse nominali sono fermi ed è difficile riuscire a farli scendere ancora di più. A quel punto i tassi reali possono salire, con effetti negativi sulla domanda e un impatto anche sul debito, che salirebbe in termini reali. Il debito, sia pubblico che privato, in Europa è già alto e crescerebbe ancora con la deflazione: è il classico meccanismo debito- deflazione, che è prevalso per esempio durante la Grande Depressione».
È uno scenario molto pericoloso, no?
«Per questo la politica monetaria dev’essere espansiva e restarlo a lungo nel tempo. Su questo vi è un consenso ampio, e la storia – anche recente – ha dimostrato che con la politica monetaria riusciamo a intervenire efficacemente e che la deflazione si può combattere».
Qualcuno teme la fiscal dominance, il fatto che la banca centrale si trovi costretta a assecondare e sostenere l’indebitamento crescente dei governi…
«C’è una giusta preoccupazione che, se la politica monetaria si sostituisse alla politica di bilancio usando la base monetaria per finanziarlo, al posto delle tasse o del debito, si finirebbe per compromettere l’indipendenza delle banche centrali con conseguenze alla lunga molto gravi. Ciò detto, non credo che si debbano oggi prendere troppo sul serio questi rischi perché, se in questo momento non agiamo in accordo con la politica di bilancio per sostenere l’economia e riportare la domanda ai livelli giusti per riguadagnare la stabilità dei prezzi, potremmo finire per perdere l’indipendenza per la ragione opposta. Qualche politico potrebbe dire che non stiamo facendo il nostro dovere. Il policy mix, l’interazione fra politica monetaria e di bilancio, non è certo una cosa dell’altro mondo».
La Federal Reserve cercherà di massimizzare l’occupazione tollerando anche che l’inflazione salga per un po’ sopra al suo obiettivo del 2%. Un buon modello?
«È una proposta interessante, lo stiamo studiando e stiamo discutendo noi stessi su come rivedere la nostra strategia di politica monetaria. L’obiettivo della stabilità dei prezzi è nel Trattato europeo, è il nostro principale mandato. Ma non è il solo perché è anche scritto che dobbiamo contribuire alle politiche della Ue, volte a dare occupazione a tutti e creare condizioni di sostenibilità sociale adeguata. In questo contesto è ovvio che noi dobbiamo guardare alla domanda. Che sia o meno nel nostro Statuto, è evidente che se la domanda è troppo bassa la politica monetaria deve cercare di farla salire. Il problema è nella percezione del pubblico. I nostri sondaggi indicano che la nostra definizione di stabilità dei prezzi è vaga, difficile da comprendere. Diciamo che vorremmo un tasso d’inflazione su livelli inferiori ma prossimi al 2% nel medio periodo. Io credo invece che l’obiettivo debba essere simmetrico».
Dunque 2%?
«Certo non “inferiore ma prossimo” al 2%. Penso anche che dev’essere mantenuto a un livello abbastanza lontano da zero. Uno per cento o 1,5% sono valori troppo bassi perché ci vogliono margini di flessibilità sufficienti per far fronte alle crisi e bisogna anche tenere conto di un’innovazione tecnologica continua, rapida e molto forte che tende a ridurre i prezzi e distorcere la stima statistica della loro crescita. Ma, soprattutto, serve chiarezza di intenti. Non è un fatto positivo che le decisioni di politica monetaria siano seguite da una serie di comunicati stampa di alcune banche centrali nazionali e da dichiarazioni più o meno episodiche di noi membri del Consiglio direttivo».
Deve parlare solo Christine Lagarde?
«No, bisogna che ci sia più trasparenza. Bisogna che si sappia ciascuno di noi cosa pensa e che questo avvenga nelle discussioni al Consiglio direttivo. Non ci sarebbe niente di male se nelle minute delle riunioni a ciascuno di noi venissero esplicitamente attribuite le proprie riflessioni. Ci faremmo capire meglio anche dal pubblico, e si scoprirebbe che vi sono molte meno differenze di opinione di quanto spesso si crede».
Che ingredienti dovrebbe contenere il percorso di riduzione del debito pubblico?
«Il debito è di tutti noi e dobbiamo essere molto chiari: la capacità di sostenerlo non è in dubbio, l’Italia ha sempre onorato il proprio debito. Ma in questo ci sono dei costi: se l’onere del debito è troppo alto, ciò limita la possibilità di usare le risorse per altri scopi importanti. Inoltre i mercati possono anche dare risposte pericolose in fasi di shock o di crisi politiche. Ci sono tre variabili che contano: la crescita economica, gli interessi sulla carta pubblica e l’avanzo primario (al netto degli interessi, ndr). Queste variabili sono collegate, ma è la crescita quella fondamentale: senza, non riusciamo a far scendere il rapporto fra debito e prodotto, che è la dimostrazione più chiara della nostra capacità di rimborsare».
Cosa si sente di dire a un giovane che deve decidere se emigrare all’estero o puntare sull’Italia costruire il suo futuro? E a una donna?
«Credo servano i fatti, non le parole. Dire a un giovane “stai tranquillo” – senza fatti che lo sostengano – non è utile, è sbagliato. Ci sono ritardi in Italia tanto sul fronte dell’occupazione quanto sull’istruzione. Giovani con competenze elevate spesso lasciano l’Italia, perché la società italiana non è riuscita a creare una domanda sufficiente di competenze elevate. Invece è una domanda necessaria. Ora che avremo più investimenti in innovazione, ciò richiederà competenze elevate; è così anche per una pubblica amministrazione più capace. Ai giovani conviene studiare, investire su se stessi, sul proprio capitale umano. Oltretutto le proiezioni demografiche sui prossimi quindici anni indicano che in Italia avremo tre milioni di persone in meno in età di lavoro. Ci sarà un deficit di persone, nonostante una stima Eurostat di 200 mila ingressi l’anno di stranieri. Anche per tutto questo occorre che ci sia più partecipazione al lavoro, per raggiungere tassi di crescita sufficiente, per sostenere un avanzo primario dell’1,5% del Pil, per mantenere un tasso d’interesse basso e garantire un consolidamento naturale e progressivo del debito. Se non riusciremo ad alzare di molto la partecipazione al lavoro – in particolare dei giovani, delle donne, delle persone nel Mezzogiorno – ci sarà una caduta del Pil».
Come giudica la conduzione del governo in questa fase?
«Ho interazioni frequenti con i ministri, con Roberto Gualtieri poi il confronto è continuo così come con il presidente del Consiglio. Il governo si è trovato a gestire una situazione drammatica e da cittadino credo che alla fine, nel confronto internazionale, non ne sia uscito male. Ha raccolto un’eredità molto difficile, perché siamo stati tutti responsabili in passato nel non essere capaci, come Paese, di cogliere al meglio le opportunità di un mondo più aperto. Siamo rimasti nel nostro piccolo mondo, condannandoci a una stagnazione prolungata. Ecco perché l’opportunità che ha questo governo è epocale e va colta».