Dal Sole24Ore.
Alla condotta del professionista che rilascia un infedele visto di conformità sulla dichiarazione Iva del cliente, senza però essere consapevole della falsità di quella dichiarazione, si applica la sanzione amministrativa stabilita dall’articolo 39 del Dlgs 241/1997 (per il visto infedele) e non quella prevista per il contribuente dall’articolo 13 del Dlgs 471/1997 (per le violazioni in tema di compensazioni). Lo afferma la Corte di giustizia tributaria di secondo grado dell’Emilia Romagna nella sentenza 520, sezione 7, depositata il 7 giugno scorso.
La contestazione
Il giudizio prende le mosse dall’impugnazione di un atto con cui l’agenzia delle Entrate aveva irrogato, in base all’articolo 13, comma 5, Dlgs 471/1997, una sanzione pecuniaria a una professionista alla quale era stato contestato di aver concorso con una società – mediante apposizione del visto di conformità su una dichiarazione Iva – nell’evasione del pagamento dei debiti erariali e previdenziali attraverso l’utilizzo in compensazione di crediti inesistenti.
Il giudice di primo grado, richiamando la regola generale sulla responsabilità del prestatore d’opera contenuta nell’articolo 2236 del Codice civile, aveva rideterminato l’ammontare della sanzione. Contro la sentenza hanno proposto appello sia la professionista sia le Entrate.
Nel decidere le impugnazioni, la Corte, osservato che il primo giudice aveva «utilizzato un argomento eccentrico rispetto alla norma di settore», conferma la sentenza, integrandola con il richiamo all’articolo 39 del Dlgs 241/1997. Infatti, è fuori discussione che la professionista avesse tenuto una condotta negligente, consistita nell’aver omesso, in modo cosciente e volontario, di effettuare i necessari controlli preventivi sulla documentazione fiscale della società, ovvero sia la verifica della corrispondenza tra i dati dei documenti fiscali e le scritture contabili sia la successiva riconciliazione delle stesse con le rispettive dichiarazioni, essendosi limitata ad accertamenti a campione sui registri. E non c’è dubbio che un’attenta ricognizione degli atti le avrebbe consentito di individuare «la macroscopica difformità» tra i valori indicati nei registri Iva e quelli esposti nella dichiarazione.
Tuttavia, i fatti contestati dall’Agenzia, che peraltro non aveva nemmeno denunciato penalmente la professionista, non sono sufficienti per affermare la «consapevole partecipazione alla falsità della dichiarazione e alla compensazione indebita» dell’Iva, giacché per giungere a questa conclusione si sarebbe dovuta dimostrare l’esistenza di qualcosa di più rispetto all’infedele visto di conformità. Così la Corte ha respinto entrambi gli appelli.
Le ricadute pratiche
La questione in esame ha importanti risvolti pratici: per l’utilizzo in compensazione di crediti inesistenti l’articolo 13 – nella versione precedente le modifiche dettate dalla riforma fiscale con il Dlgs 87/2024 – prevedeva una sanzione dal 100 al 200% della misura dei crediti (le nuove norme stabiliscono invece la sanzione base del 70%, incrementabile in base alla gravità della violazione); mentre per il visto infedele del professionista l’articolo 39 dispone una sanzione non superiore a 2.582 euro.