Dal Corriere Economia
Il direttore delle Entrate Ernesto Maria Ruffini lascia l’incarico. «Il clima è cambiato», dice al Corriere. «Non scendo in campo, ma rivendico il diritto di parlare».
Dunque ha deciso?
«Si, l’ho già fatto. Mercoledì ho visto il ministro Giorgetti per avvertirlo dell’intenzione di rimettere il mandato e consentire così il regolare passaggio di consegne con chi sarà chiamato a succedermi».
Quindi scende in campo?
«No».
Tutto qui?
«Ci sono domande a cui si risponde con un sì o con un no. E la mia risposta è no. Avevo già smentito dopo i primi articoli di stampa. Lo ripeto. Non condivido il chiacchiericcio che scambia la politica per un gioco di società, le idee per etichette ed il senso civico per una scalata di potere. Non scendo e non salgo da nessuna parte».
E perché si è dimesso?
«Perché è l’unico modo per rimanere me stesso. Sono un avvocato che da tanti anni scrive e partecipa a incontri pubblici su ciò che ci unisce, come la Costituzione e l’uguaglianza. Ho letto però che parlare di bene comune sarebbe una scelta di campo. E che dunque dovrei tacere oppure lasciare l’incarico. La mia unica bussola in questi anni è stata il rispetto per le leggi e per il mandato che mi è stato affidato, perché il senso più profondo dello Stato è questo: essere al di sopra delle parti, servire il bene comune. Quello che è accaduto in questi giorni intorno al mio nome descrive un contesto cambiato rispetto a quando ho assunto questo incarico e anche rispetto a quando ho accettato di rimanere. Ne traggo le conseguenze».
Non è giusto?
«Ne prendo atto. Ma in tutti questi anni non mi era mai accaduto. È stata fatta persino una descrizione caricaturale del ruolo di Direttore dell’Agenzia, come se combattere l’evasione fosse una scelta di parte e addirittura qualcosa di cui vergognarsi. Se le cose stanno così, mi sono detto, che senso ha rimanere? Passo la mano, nessun problema. Scendo, ma non in campo. Scendo e basta. Il mio mandato era comunque in scadenza fra un anno. Torno a fare l’avvocato, che è una bellissima professione. Rimango con le mie idee e i miei ideali. E difendo il diritto e la libertà di parlare di bene comune e senso civico. Per me oltre che un diritto è un dovere di tutti».
Le pesa lasciare l’Agenzia?
«Se vogliamo usare la bilancia, le garantisco che il peso che ho portato finora è molto più grande. Sono stati impegnativi gli anni alla guida dell’Agenzia. Hanno richiesto tante rinunce personali e familiari. Ma ogni cosa giunge a un termine, che non sempre è quello prefissato. Non essendo attaccato alle poltrone, non ho mai considerato il mio ruolo come una posizione da occupare, ma come un incarico da svolgere con lealtà, per servire non un partito o una parte politica ma le istituzioni, lo Stato, indipendentemente da chi sia al governo. È questa convinzione generale — che pensavo riconosciuta e condivisa — che mi ha aiutato a sostenere il peso».
Da questo governo non sono mancate critiche all’operato dell’Agenzia.
«È vero. In effetti non mi era mai capitato di vedere pubblici funzionari essere additati come estorsori di un pizzo di Stato. Oppure di sentir dire che l’Agenzia delle Entrate tiene in ostaggio le famiglie, come fosse un sequestratore. Ho taciuto sinora, per senso dello Stato. Attenzione però: se il fisco in sé è demonizzato, si colpisce il cuore dello Stato; tanto più che il livello della tassazione lo decide il legislatore, non l’Agenzia. Personalmente ho sempre pensato che a danneggiare i cittadini onesti siano gli evasori».
La sua partecipazione a convegni dove si discute di temi sociali e politici ha sollevato polemiche e critiche.
«Sono anni che partecipo a iniziative pubbliche sul significato del bene comune, perché è un tema che mi coinvolge. E che non è di parte. Ci sono valori che sono o dovrebbero essere di tutti. Ci ho scritto anche libri e non per chissà quali finalità, ma perché lo reputo il fondamento del nostro vivere insieme. Condividere l’educazione al bene comune, specialmente per le generazioni più giovani, significa formare cittadini consapevoli. Che parlano di politica nel suo significato più alto e nobile. E non si trincerano dietro il “qui non si parla di politica”. Sono i cittadini consapevoli che rendono forte la democrazia di un Paese».
Lei è stato descritto come un possibile federatore.
«Fatico a pensare che per cambiare le cose bastino i singoli. Per natura tendo più a credere nella forza delle persone che collaborano per un progetto comune. Affidarsi a sedicenti salvatori della Patria non è un buon affare. Dovremmo smetterla di considerare la politica come una partita a scacchi o un gioco di potere, perché dovrebbe essere un percorso fatto di discussioni, grandi ideali, progetti, coinvolgimento. Non un talent show culinario per selezionare uno chef in grado di mescolare un po’ di ingredienti, nella speranza che il piatto finale sia buono. Altrimenti si alimenta il distacco dei cittadini dalla politica. E si costruisce un futuro peggiore».
Non scende in politica ma parla quasi solo di politica.
«Sa cosa c’è? Che usiamo la stessa parola per parlare di due cose diverse. Chi pensa che la politica sia fatta per occupare posti non le dà il mio stesso significato. La politica non è un posto dove sedersi. Anzi, impone di rimanere in piedi e camminare. Ed è fatta da ogni cittadino che crede nel bene comune, nella democrazia, nelle istituzioni. Io mi ritrovo in questo modo di essere cittadini. Per i valori con cui sono cresciuto, politica vuol dire innanzitutto avere a cuore la comunità in cui si vive. Un’avventura collettiva fondata su rispetto, dialogo e soprattutto partecipazione, perché ci si può impegnare anche senza avere ruoli, per semplice senso civico: non occorre diventare giardinieri per prendersi cura dell’aiuola davanti a casa».
Vuol dire che si occuperà di politica in questo modo?
«Penso che questo sia un diritto, e un dovere di ogni cittadino. Quindi anche mio».