Dal Sole24Ore una interessante disamina sulle varie forme di responsabilità per i professionisti e consulenti in materia di reati tributari.
Presupposti diversi per i profili civili, deontologici, amministrativi e penaliSergio Pellegrino Lucia Recchioni
Sono numerose le fattispecie nell’ambito delle quali possono sorgere questioni di responsabilità in capo al professionista, essendo tra l’altro necessario distinguere tra responsabilità amministrativa, civile, penale e deontologica.
Ognuna di queste forme di responsabilità, infatti, è caratterizzata da principi propri, ragion per cui, se in determinati casi non sussistono problematiche di responsabilità amministrativa, potrebbero comunque sorgere, ad esempio, rischi di richieste di risarcimento danni per responsabilità civile.
In ambito penale ci sono due norme rilevanti: da un lato l’articolo 110 del Codice penale, in materia di concorso di persone nel reato, e, dall’altro, la circostanza aggravante dettata dal comma 3 dell’articolo 13-bis del Dlgs 74/2000, in forza della quale le pene sono aumentate della metà se il reato è commesso dal concorrente nell’esercizio dell’attività di consulenza fiscale svolta da un professionista attraverso l’elaborazione o la commercializzazione di modelli di evasione fiscale.
Affinché possa configurarsi il concorso del consulente nel reato tributario commesso dal contribuente è necessario che il suo contributo sia concreto e consapevole, ragion per cui può ritenersi sussistente un’ipotesi di responsabilità soltanto in caso di dolo, quando il consulente risulta vero e proprio ispiratore della frode, essendo invece irrilevante il fatto che abbia o meno beneficiato dell’illecito.
In tema di reati tributari, vi è poi un ulteriore aspetto da tenere a mente, rappresentato – come detto – dalla specifica circostanza aggravante prevista se il reato è commesso dal concorrente nell’esercizio dell’attività di consulenza fiscale svolta da un professionista. Sebbene la norma non lo richieda espressamente, in questo caso, come evidenziato anche dalla Cassazione con la sentenza 1999 del 18 gennaio 2018, è richiesta una particolare modalità della condotta, ovvero la “serialità”. Considerato, infatti, che la norma attribuisce rilievo all’elaborazione o commercializzazione di «modelli di evasione», deve ritenersi rilevante una certa «abitualità e ripetitività della condotta incriminata».